De iustitia hominum
Il vecchio custode mi fece entrare in una stanza chiusa al pubblico. L’odore intenso di pietra umida, di muffa e di polvere, che pareva strappare l’aria dai polmoni era accentuato dalla mancanza di luce. Per poter vedere qualcosa, il custode accese le candele disposte qua e là, pronte per le rare visite. La luce tremula era appena sufficiente per distinguere i mattoni nelle pesanti pareti. L’ombra esile del custode si allungava su di esse.
— Non è mai stato possibile installare un impianto elettrico qui dentro, — disse lui con la voce rovinata dal fumo, che gli aveva imbiondito i baffi grigi. — Ma ora guardi qua.
Un alto mobile in legno, che mi ricordava un armadio antico, spezzava il reticolo del legante tra i mattoni, che pareva fremere per via dell’illuminazione incerta. Il custode tese una mano e aprì lentamente un’anta del mobile dal quale fece capolino un volto deforme con gli occhi sbarrati.
Il vecchio schiarì la voce per annunciarmi: — Ecco la nostra collezione di teste.
Ebbi un sussulto. Sentivo il sangue ghiacciato scorrermi per tutte le vene e cercavo di ingoiare il cuore sperando che il vecchio non si fosse accorto della mia reazione. Questi spalancò completamente quello che effettivamente altro non era che un repositorio di teste umane sotto formaldeide. Quella che tanto mi aveva impressionato si trovava all’interno di un recipiente cilindrico, troppo stretto per contenerla senza schiacciargli il naso. Oltre agli occhi, anche la bocca era aperta, con la mandibola inclinata lateralmente rispetto alla mascella. — Questo è il volto di chi sta vedendo la morte — commentò il vecchio custode, che aveva notato la direzione del mio sguardo. — È un condannato a morte per decapitazione. Non sappiamo altro. Uno dei tanti. Crede che per lei sarà diverso? Anche quelli di cui ci ricordiamo sono comunque morti. Cosa cambia? Queste sono solo teste, quello che conta sono le azioni e ancor di più i pensieri.
Ineccepibile. Però era un commento non richiesto e che trovai persino banale.
— E lei che se ne sta qui è solo un morboso che vuole vedere dei morti male, — proseguì.
Questo rimprovero mi fece sollevare un sopracciglio, ma con lo sguardo continuai ad indagare quei volti in serie, finché uno non catturò la mia attenzione.
— Chi è lui? — domandai.
Diversamente dal primo che avevo visto, questo era inserito in una teca cubica, che lo conteneva comodamente. Ciò che mi sorprese fu il perfetto stato di conservazione. Il liquido pareva incolore, e permetteva di osservare la morbidezza dei suoi capelli ondulati e il candore della sua pelle liscia. I suoi occhi brillavano ancora di vita, e la bocca era piegata leggermente in un ghigno beffardo. Sembrava che mi stesse giudicando.
— Questo è il conte di La Fère. Di lui sappiamo qualcosa. Credo sia l’unica di queste teste che meriti di essere tenuta qui. Ma non fuori da qui! Questa testa è un mistero.
Il custode pareva essersi calmato dal precedente sfogo che così poco mi aveva coinvolto.
— Perché? Com’è morto? — chiesi senza interrogarmi sul cambiamento di umore.
— È l’unico qui con gli occhi aperti senza un’espressione sofferente — disse, rispondendo al suo vivo sguardo di morto.
— Il conte di La Fère fu accusato di essere un libertino, uccisore di donne e mangiatore di bambini. Qualcuno sostiene che avesse contatti con il Diavolo in persona. Il suo volto qui lo dimostrerebbe.
A quel punto pensai che il custode, infastidito dalla mia curiosità, mi stesse prendendo in giro. Senza scompormi, risposi al custode: — Addirittura! E come mai non ne ho mai sentito parlare? Questa storia la conosce solo lei? E come sarebbe morto? Lo sa?
Egli emise un sospiro gracchiante, quello dei fumatori da decenni. — Morì ghigliottinato! Lo sappiamo, ma in pochi, perché esistono le documentazioni, ma non sono pubbliche. Il suo volto è un mistero. Ghigliottinato! Un mistero.
Emisi un sospiro anche io, ma senza gracchiare. Avevo sentito abbastanza. Il custode aveva un tono di voce turbato, che rendeva lecito pensare che la storia potesse essere vera. Guardai ancora quegli occhi brillanti di vita e quel ghigno beffardo, salutai il vecchio custode, che lasciai a spegnere le candele e richiudere la porta.
Quella sera, a casa, cenai con tutta calma, mi preparai per la notte e mi addormentai tranquillamente.
Il conte di La Fère saliva i gradini del patibolo con i polsi legati stretti dietro la schiena. Lo scortavano due soldati, mentre il piccolo gruppo dei suoi servitori si stringeva poco indietro per consolare uno le lacrime dell’altro. Salito l’ultimo gradino, il conte annusò l’aria. Era una giornata stranamente fresca per la stagione e lì sopra, lontano dai corpi puzzolenti che si spingevano per arrivare dove si poteva essere schizzati dal sangue del condannato, lì sopra l’aria aveva proprio un buon odore. Mentre qualcuno leggeva le accuse, facendo gridare di sdegno i servitori del conte, questi fece due passi avanti per osservare la folla. Sembravano tutti uguali, tutti sporchi di fango, con i denti rovinati. Una donna teneva in braccio un bambino e gli ordinava, strillando nelle orecchie del poveretto e stringendogli il mento con una mano, di guardare e di non chiudere mai gli occhi. Il conte pensò che forse sarebbe stato meglio lasciarglieli chiudere per evitare di rovinargli l’infanzia. Poco più in là, un omone pelato e particolarmente brutto, approfittando della calca esplorava le forme di una donna in apparenza matura, ma che poteva avere anche solo vent’anni, considerate le pessime condizioni in cui viveva quella gente. Qualcuno lesse la sentenza. Condanna a morte per decapitazione tramite ghigliottina. Queste parole gli fecero alzare un sopracciglio, dopodiché tornò ad osservare il popolo, che cominciò ad agitarsi con maggior veemenza. Quasi tutti bestemmiavano, molti cadevano a terra e venivano calpestati, e verso il patibolo era indirizzata una pioggia di sputi, che come tutte le piogge deve rispondere alla legge di gravità e ricadeva sulle teste delle prime file. Un paio di sputi, che evidentemente proprio da quelle prime file provenivano, raggiunsero il legno a non meno di mezzo metro dalle sue scarpe. Un sacerdote panciuto e con pochi capelli solo dietro la nuca, farfugliava preghiere in un latino che non conosceva e verosimilmente chiedeva perdono per i peccati del conte e gli chiedeva di pentirsi. Il conte continuava la sua analisi della piazza. Un ragazzetto si fece largo ed arrivò proprio ai piedi del patibolo e gli domandò urlando: — Ma tu lo conosci davvero il diavolo? — Non fece in tempo a pronunciare la “o” finale che un pugno giunse violento, accompagnato da una sonora bestemmia, e gli squassò un orecchio. Fu rimandato a calci in mezzo alla ressa. Seguendolo con gli occhi il conte vide che l’omone brutto ormai aveva quasi spogliato la donna, la quale tentava di divincolarsi, ma veniva calmata a schiaffi. Il prete chiese nuovamente al conte, con voce più alta, se si dichiarasse pentito, o almeno così immaginò il condannato, che destatosi dai suoi pensieri rispose un po’ confuso: — Sì, sì —. I soldati lo condussero alla ghigliottina. Il conte voltò la testa e sorrise ai suoi servitori e fece loro l’occhiolino. Essi si lasciarono cadere a terra con la testa abbassata per non guardare e per nascondere le lacrime. Il volto del conte di La Fère tornò serio. Fu fatto inginocchiare, posizionato sotto la lama e gli fu bloccato il collo. Ripensò a quel povero ragazzo malmenato e sentì la sua bocca piegarsi in un ghigno beffardo.
Poi fu il suono della lama che precipitò scintillante.